Hong Kong, anni Settanta. La città è in subbuglio per le indagini anti-corruzione dell’ICAC, che si concentrano sulla polizia locale e sui suoi legami con speculatori e criminalità organizzata. L’onesto e meticoloso investigatore Lau avvia un’indagine su Henry Ching, plenipotenziario del settore immobiliare arricchitosi rapidamente. Sarà l’inizio di un lungo e sanguinoso duello, dentro e fuori dalle aule dei tribunali, per provare a ripulire il volto di Hong Kong. Co-sceneggiatore di Infernal Affairs, cult movie hongkonghese del 2002, poi adattato da Martin Scorsese nel remake The Departed, Felix Chong gira in solitudine un ambizioso tentativo di rinverdire i fasti del glorioso cinema di Hong Kong che fu.
Per l’occasione punta tutto sulla riproposizione su grande schermo di due star come Tony Leung e Andy Lau, che in Infernal Affairs condividevano la stessa inquadratura per pochi ma indimenticabili minuti (fatte le debite proporzioni, a Hong Kong rappresentò l’equivalente di quanto avvenuto con Robert De Niro e Al Pacino in Heat di Michael Mann). Anche in The Goldfinger non sono molte le scene in cui i due attori si confrontano vis à vis, ma tutto il film è permeato dalla loro contesa, con inversione dei ruoli a cui sono tradizionalmente associati: questa volta Tony Leung è il palazzinaro senza scrupoli, salito dalle stalle alle stelle, e Andy Lau è l’inflessibile e austero poliziotto, che rinuncia a ogni benessere e quiete pur di dare la caccia a Ching e a quel che rappresenta per la città di Hong Kong. Città delle opportunità dal cuore marcio di corruzione, Hong Kong è la grande protagonista del film di Chong e la sua storia viene rivissuta attraverso l’ambizioso percorso diacronico del palazzinaro: il controllo britannico, l’ondata di arresti anti-corruzione, le crisi economiche ricorrenti, l’handover con la Cina.
Per mettere in scena questo affresco, Chong allestisce una produzione costosissima (l’equivalente di 41 milioni di euro) e saccheggia lo stile di Martin Scorsese e, in particolare, di Quei bravi ragazzi e Il lupo di Wall Street. L’educazione allo stile di vita gangster e la sagacia finanziaria sono sussunte nel personaggio di Ching, che ha il sangue freddo del personaggio di Ray Liotta e l’edonismo decadente di quello di Leonardo DiCaprio. Sotto il luccichio glitter, però, resta poca sostanza e The Goldfinger non riesce mai a mentire sulla propria natura artificiosa di prodotto rimasto un progetto sulla carta, fabbricato con un intento ben preciso, ma privo dell’autentico spirito del cinematografo (specie quello avventuroso della Hong Kong di un tempo). The Goldfinger fa sfoggio di sé, ottunde lo spettatore con dei virtuosismi, ma non dialoga mai con lui. Se in Infernal Affairs il pathos era generato da trama e montaggio, in The Goldfinger Chong sembra attendersi questo ritorno dal semplice fatto di posizionare Leung e Lau davanti a una macchina da presa, quasi a presumere che qualcosa accada. È cinema autoreferenziale, che basa le sue fortune su un contesto extra-diegetico, senza il quale restano un esercizio di stile e una riproposizione dell’assunto scorsesiano sul legame inscindibile tra meccaniche capitaliste e sopraffazione. Anche il ritmo è diseguale, con una prima parte che indugia sui dettagli e procede con lentezza, mentre l’ultimo segmento accelera e risolve frettolosamente la vicenda. La recitazione delle due star, troppo consapevole per essere credibile, è bloccata dall’obbligo di overacting di Leung e di minimalismo di Lau, con l’aggravante che il personaggio di quest’ultimo è penalizzato dalla mancanza di un approfondimento caratteriale o psicologico degno di nota. Più che una metafora sulla parabola di Hong Kong guidata dal Capitale, The Goldfinger finisce per essere involontario reenactment di un cinema ridotto a museo delle cere, come uno spettacolo che si ostina in una coazione a ripetere, anche quando il sipario è calato da tempo.
tit. or.: Jin shou zhi
Hong Kong/Cina, 2023
Regia: Felix Chong.
Soggetto/Sceneggiatura: Felix Chong.
Cast: Tony Leung, Andy Lau, Charlene Choi, Simon Yam.