Dearest

Quattro anni dopo A Simple Life, Ann Hui torna dietro la macchina da presa (e al Festival di Venezia, che nel 2011 premiò Deanie Ip come migliore attrice) con un progetto tanto vasto e ambizioso quanto A Simple Life era intimo e lineare. Ne è oggetto la vita di Xiao Hong, scrittrice, saggista e intellettuale che nella prima metà del ventesimo secolo attraversò - con l’intensità e la brevità di un lampo - un significativo periodo di storia cinese.

In neanche trentuno anni di vita, Xiao Hong fece in tempo a nascere nel nord della Cina sotto l’ultima dinastia imperiale, e morire a Hong Kong nel 1942, con l’ex-colonia in piena guerra e occupata dai giapponesi. Conobbe miseria e incredibili difficoltà, da un padre violento fino a un matrimonio forzato (scappò da entrambi), riuscendo a emergere come autrice in un panorama che certo non incoraggiava le voci femminili.

Tra i fermenti giovanili del Movimento 4 Maggio (in risposta alle concessioni territoriali al Giappone) e un clima culturale in cui crescevano le pubblicazioni e gli spazi editoriali concessi al dibattito politico, Xiao Hong è un prodotto del suo tempo e insieme una sopravvissuta della sua epoca, portata più volte sull’orlo del baratro e costretta alla subalternità nei confronti degli uomini che hanno fatto parte del suo cammino (spesso incrociando le dimensioni professionali e sentimentali).

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Ce n’è insomma abbastanza per il più classico dei biopic, ma Ann Hui sceglie una strada diversa e si affida a Li Qiang (il quale ha scritto Peacock di Gu Changwei, oltre ad aver già collaborato con Hui a The Postmodern Life of My Aunt) per la creazione di una sceneggiatura ibrida: i vari episodi della vita di Xiao Hong si sviluppano in modo tradizionale, ma sono uniti, introdotti e chiosati da una serie di intermezzi in cui i personaggi - perlopiù periferici e di contorno - parlano in macchina fornendo una prospettiva paratestuale sull’universo di Xiao Hong.

Concettualmente molto intrigante - l’ambiguità, in fondo, dovrebbe vestire come un guanto la mano implicitamente pedissequa della forma biopic - la scelta di Ann Hui perde però numerosi occasioni di rendersi rilevante. La frizione tra i diversi toni non produce scintille, quanto piuttosto una sorta di reciproca illustrazione che nega il vantaggio di una struttura così atipica. Le sequenze più riuscite stanno del resto in piedi anche da sole, che siano cruciali punti di svolta (l’abbandono da parte del futuro marito a Harbin, quando ritrovatasi sola, incinta e senza soldi, Xiao Hong decide di chiedere aiuto agli editori di un giornale) o momenti sommessamente rivelatori (il discorso autentico e disilluso con cui prende in sposo Duanmu, sovvertendo ogni aspettativa cerimoniale).

Per essere una storia che include guerre, continui spostamenti, ascese letterarie e relazioni cataclismiche, The Golden Era risulta chiaro ed esaustivo come un sussidiario, e ugualmente monocorde. A poco servono l’intensa interpretazione di Tang Wei (Lust, Caution di Ang Lee, Crossing Hennessy di Ivy Ho) e la fotografia classicamente composta di Wang Yu, sempre in bilico tra l’accurata ricostruzione di luci e colori d’epoca e la suggestione di un taglio sintetico che richiama la natura fittizia della ricostruzione.

Curiosamente, la storia di Xiao Hong è stata già al centro di Falling Flowers, che Jianqi Huo ha diretto nel 2012. In una comune ansia di far trasparire la potenza dell’autrice (paragonata da Ann Hui a Brontë e Melville) attraverso il dramma personale, entrambi i film finiscono ironicamente per sminuirla, privilegiando l’ambito romantico e togliendo agency a un personaggio che tanto ha faticato per conquistarla.

Hong Kong/Cina, 2014
Regia: Ann Hui.
Soggetto/Sceneggiatura: Li Qiang.
Cast: Tang Wei, William Feng, Mickey Yuan, Yao Chen.