Il titolo originale del terzo appuntamento a tema diretto da gemelli Oxide e Danny Pang, The Eye 10 (alias The Eye ∞ alias The Eye Infinity), è più significativo e ironico di quanto si possa pensare. Quello dei tre The Eye, che originariamente non doveva diventare una saga, è un discorso di puro marketing, che ora tenta, senza brillare per particolare inventiva, la strada dell'ironia, allo stesso modo di quanto fecero parecchi anni prima Wes Craven e Kevin Williamson dando vita a Scream e compagnia.
The Eye 10 (titolo italiano: The Eye 3: Infinity) non è infatti semplice rilettura spiritosa degli originali, piuttosto rivitalizzazione tragicomica di stereotipi canonici di due esperienze horror panasiatiche mescolate senza soluzione di continuità.
Da un lato la grossolanità e il folklorismo dei brividi thailandesi (vedere Body Jumper di Heamarn Cheatamee o Headless Hero di Kromsan Tripong per farsi un’idea), dall'altro la pungente vena satirico-sociale della tradizione cantonese dei vari Mr. Vampire e Troublesome Night, capisaldi del genere a Hong Kong a cavallo tra anni ’80 e ‘90. Il titolo stesso, «nomen omen», cela intenti più profondi di quanto si possa credere: i suffissi 10 e infinito sono infatti sia una ironica presa in giro dell'abitudine tutta orientale di accumulare seguiti su seguiti sfruttando, in periodi di ipertrofia produttiva, una formula di successo; ma al tempo stesso sono un richiamo alle superstizioni locali, che prevedono dieci modi - i primi due, trapianto della cornea e tentato suicidio durante la gravidanza, esaminati in maniera seria in The Eye e The Eye 2 - per potersi mettere in contatto con l'aldilà e vedere i morti.
Si tratta perlopiù di barzellette sovrannaturali, che prevedono giochi (di ruolo), improvvisare un nascondino tenendo in braccio un gatto nero, e luoghi comuni, aprire un ombrello in un luogo chiuso oppure ricorrere ad una tavoletta Ouija. Rispetto ai prototipi, molto patinati, i fratelli registi adottano qui un punto di vista nettamente stravolto, caratterizzato in primis dagli ambienti poveri, dagli attori semi-esordienti e dalla fotografia sporca e sgranata. La scarsa cura formale, in un contesto scenografico primitivo, tradisce l'ambizione di voler tornare alle origini delle paure ancestrali. L'idea che il realismo contestuale metta a proprio agio la platea non funziona del tutto, e diventa piuttosto sintomo di pressapochismo tecnico. Una scelta tattica che dunque non paga: gli interpreti giovani e di belle speranze sono volti che senza una guida decisa non rendono granché, mandati al macero come pedine senz'anima; le location scarne non garantiscono l'autenticità di un prodotto indigeno e non incuriosiscono; la realizzazione macchinosa e frastagliata pone seri dubbi sull'adeguatezza di un budget che non supporta a dovere, fin dalle prime inquadrature, con effetti speciali obsoleti, soggetto e sceneggiatura già di per sé raffazzonati.
Cosa rimane, quindi? Qualche momento divertente; un paio di debutti importanti (le popstar Isabella Leong e Wilson Chen, volti dal futuro cinematografico radioso, di nuovo insieme con profitto in Bug Me Not di Law Chi Leung); il coraggio di proporre con costanza i clichés di una vita, anche se tramite una scrittura e una messinscena blande; i movimenti suadenti della camera, che avvolgono lo spettatore cullandolo, premessa alla ninna nanna in atto su grande schermo e antipasto della noia che lo andrà a colpire di lì a breve.
Hong Kong, 2005
Regia: Oxide Pang, Danny Pang
Soggetto / Sceneggiatura: Mark Wu
Cast: Wilson Chen, Kate Yeung, Ray MacDonald, Isabella Leung, Kris Gu