Quando, durante il Festival di Cannes del 2008, John Woo presentò in pompa magna il progetto The Crossing, che lo avrebbe impegnato per gli anni a venire, né lui né i manager della rampante Beijing Gallop Horse Film, capofila della iper-strutturata coproduzione, ebbero timore nell’evocare il Titanic di James Cameron, promettendo che la nuova pellicola del regista di Bullet in the Head avrebbe oscurato il blockbuster con Leonardo DiCaprio e Kate Winslet, se non in termini di celebrità quantomeno a livello di tessitura spettacolare.
Le premesse, tutto sommato, c’erano, ed erano riassumibili in una feroce saldatura tra un arsenale produttivo senza precedenti, o quasi, nel cinema orientale - ovvia conseguenza del salto di qualità della cinematografia nazionale cinese, ormai pronta a misurarsi sullo stesso terreno delle megaproduzioni hollywoodiane - e il talento visivo di uno dei cineasti più imitati degli ultimi trent’anni, capace di rivoluzionare il senso stesso dello spettacolo cinematografico, facendo di feroci sparatorie e voli di colombe dei formidabili quanto non convenzionali strumenti poetici.
Il precedente riuscito di Red Cliff, inoltre, aveva già evidenziato come Woo avesse ormai raggiunto una padronanza del proprio stile e un senso del racconto per immagini tali da potersi permettere di evolvere il proprio cinema verso le dimensioni del kolossal. Un po’ meno Martin Scorsese, forse, un po’ più David Lean - cineasta da sempre tra i più amati da Woo -, ma senza mai venire meno a quel lirismo della messa in scena che ha da sempre rappresentato il vero continuum all’interno della filmografia del settantenne regista di origine cantonese.
Forse è stato proprio l’accumulo compulsivo di aspettative a dir poco smodate a giocare a sfavore della riuscita dell’opera. Fatto sta che The Crossing - diviso in due parti esattamente come Red Cliff - è diventato sì il Titanic asiatico, ma nel senso sbagliato, come certificato dai mortificanti incassi e dalle critiche al vetriolo. Un fiasco d’autore sul modello di Heaven’s Gate, di quelli insomma che possono far colare a picco la carriera più scintillante, senza nemmeno il salvagente di una qualità filmica sul momento disconosciuta ma pronta a farsi oggetto di tardive rivalutazioni.
Scritto dal fedelissimo sceneggiatore di Ang Lee, Wang Hui-ling - suoi gli script di Mangiare, bere, uomo, donna, La tigre e il dragone e Lussuria -, ma pesantemente rimaneggiato in sede di revisione della sceneggiatura dallo stesso Woo insieme a Su Chao-pin e Chen Ching-hui, anche The Crossing - alla maniera di Titanic - prende le mosse da un disastro navale realmente avvenuto per innestarvi all’interno le vicende personali di un ristretto numero di personaggi inventati di sana pianta dagli sceneggiatori. Nella fattispecie, il climax della narrazione è, o meglio dovrebbe essere, l’affondamento della nave Taiping, gigantesco shuttle marino di lusso considerato l’ultima “nave della libertà”: mentre la guerra civile cinese stava consumandosi con la vittoria dell’esercito del Partito Comunista Cinese, l’imbarcazione effettuava numerosi viaggi da Shanghai a Keelung, nella parte orientale di Taiwan, favorendo di fatto la diaspora dei nazionalisti, ormai rassegnati alla sconfitta. Nella notte del 27 gennaio del 1949, la Taiping speronò una nave merci al largo dell’arcipelago di Chou Shan, causando la morte della quasi totalità dei suoi passeggeri: delle oltre mille persone imbarcate, infatti, se ne salvarono appena una cinquantina, ripescate dopo una nottata trascorsa in acqua al buio. La difficoltà principale nell’affrontare la ricostruzione di un tale evento era l’esiguo margine di manovra a livello temporale: infatti, a differenza del Titanic, che impiegò qualche giorno prima di inabissarsi, la Taiping affondò poche ore dopo aver lasciato il porto di Shanghai per l’ultima volta. Ciò ha obbligato gli sceneggiatori ad allestire un poderoso background narrativo che conferisse ai personaggi spessore e credibilità. Con il risultato che questo background si mangia tutto il primo film del dittico e due terzi buoni del secondo (in realtà stipati di ripetizioni di intere sequenze della prima parte: perché?), relegando la parte catastrofica all’ultimo atto. Tutta questa enorme mole di materiale per raccontare le vicende di un indomito generale del Kuomintang e di sua moglie che lo attende al sicuro a Taiwan, di un medico taiwanese che dopo aver servito per i giapponesi nel corso della Seconda guerra mondiale non riesce a dimenticare la fidanzata giapponese rimpatriata dopo la fine dell’occupazione dell’isola, e di una giovane contadina del nord che insegue disperatamente il promesso sposo, soldato del Kuomintang. Le vicende di alcuni dei personaggi principali convergeranno infine a bordo del Taiping in quell’ultima tragica traversata.
A conti fatti, e considerato anche il relativamente esiguo spazio concesso alla messa in scena dell’affondamento della Taiping, più che un Titanic cinese, da un punto di vista narrativo The Crossing appare più come una sorta di Guerra e pace del terzo millennio: l’ambizione di Woo è infatti, palesemente, quella di fondere piccole storie individuali e Grande Storia, alla maniera di Tolstoj appunto (o, come già detto, di David Lean). Sullo sfondo l’affresco su larga scala, in primo piano le miniature. A funzionare è soprattutto il primo, nel quale Woo riesce a infondere tutto il talento visivo di cui è capace, con soluzioni di regia a tratti ardite, rese ancora più spettacolari dal 3D (meglio ancora se IMAX). Al contrario, i percorsi individuali dei personaggi principali risentono di una certa apatia narrativa, che li rende stucchevoli e in alcuni casi tragicamente bidimensionali: in questo caso, il gusto esasperato per l’estetismo di Woo si traduce in una messa in scena bolsa e sovraccarica, in cui la ridondanza non è più cifra stilistica ma pesante zavorra, incapace di produrre quel senso “altro” del racconto che è proprio delle opere migliori del regista. In definitiva, The Crossing funziona soprattutto come viaggio in un immaginario cinematografico complesso e multiforme, che coniuga sensibilità orientale e codici occidentali, quasi a voler proporre uno sguardo sincretico fra due modi di intendere lo spettacolo cinematografico. Dall’affresco storico al war movie, dal mélo all’action, dal film di propaganda (c’è pur sempre una committenza nazionale da accontentare, sebbene in questo caso i “rinnegati” dell’isola di Formosa siano ritratti in maniera più rispettosa della media) al disaster movie, Woo si muove con agilità lungo il crinale degli scarti di tono e delle brusche variazioni di ritmo che una tale ricchezza di suggestioni comporta, facendo intravedere in più di un’occasione bagliori accecanti del grande regista che fu e che, malgrado tutto, è ancora. Basteranno ad assicurargli una dignitosa prova d’appello?
Cina/Hong Kong, 2015
Regia: John Woo.
Soggetto/Sceneggiatura: John Woo, Su Chao-pin, Chen Ching-hui.
Cast: Huang Xiaoming, Song Hye-kyo, Kaneshiro Takeshi, Tong Da-wei, Zhang Ziyi.