Tung Zhen Bao torna dagli anni di studio in Europa, ancora molto cinese ma anche molto evoluto e reso disinvolto dall'abitudine ai costumi occidentali. A Shanghai viene ospitato per i primi tempi a casa del suo migliore amico, che ha moglie Jiao Rui, una giovane donna bellissima, annoiata e maliziosa. Fra i due nasce immediatamente un'attrazione irrefrenabile e reciproca, culminante in un collasso di sentimenti e intenti, che per Zhen Bao significa un lungo periodo di riposo in ospedale, dopo il quale, ripresosi, Zhen Bao diventa un uomo cinese adulto e responsabile, che dedica la vita alla carriera, e sceglie una moglie sottomessa e frigida...
Contraddittorio e bellissimo questo film di Stanley Kwan, con la fotografia di Christopher Doyle che rabbuia i tetri appartamenti di Shanghai degli anni trenta, non ancora occidentalizzati, ma già non più strettamente cinesi, teatri di stillicidi erotici sussurrati e succulenti. Contraddittorio verso la figura dell'uomo moderno, stoltamente tutto d'un pezzo eppure in fondo da compatire, convinto di poter avere impunitamente delle amanti sopra gli amori veri e sopra gli impegni del matrimonio (e Winston Chao è da sempre un uomo così, nei film di Sylvia Chang, e in fondo anche in Mangiare bere uomo donna di Ang Lee), sorpreso da dei rinculi fisici che ne spiazzano l'ottusità; contraddittorio verso la stupidità naive della donna cinese moderna, attratta dalle trasgressioni e più ancora dal credersi libera, dalla voglia di apparire irresponsabile, immatura e per questo irresistibile. Un tipo di donna che col tempo però cresce, invecchiando nell'amarezza ma conservando inaspettatamente una dignità, una saggezza e una stabilità di emozioni che l'uomo, irrisolto e rigido, nemmeno si sogna. Contraddittorio anche nel giudicare la società cinese, che costringe a tacere le donne che vogliono ribellarsi alle inadempienze coniugali dei mariti. Società che però allo stesso tempo conserva una morale che a frustate insegna comunque la vita e le sue trappole. Del resto il film è tratto da una delle tante (auto)revisioni in chiave romanzesca delle vicende autobiografiche di Eileen Chang, la quale aveva con i costumi cinesi un rapporto conflittuale e variabile. Stilisticamente, Red Rose White Rose è diviso in due parti, quella cupa, passionale e marrone, disseminata di legni e specchi, dominata dalla bellezza allo stato più molle e sofisticato di Joan Chen, e quella algida, eterea, fredda e piastrellata di ceramiche e geometrie (sempre care a Stanley Kwan come ad Almodovar, detto così, per inciso...), attraversata dalla fantasmatica e trasparente presenza di Veronica Yip, bravissima nel trasformarsi in un doloroso personaggio fassbinderiano, ma purtroppo resa seconda e sminuita dai fasti che prima di lei hanno riempito, secondo copione, gli occhi dello spettatore. Frequenti le citazioni di testo scritto, che appaiono a lato dello schermo sontuosamente incorniciate. Frequenti anche le spiegazioni in voce over, il che sicuramente carica l'effetto finale di (false)ridondanze che possono piacere moltissimo così come stufare e stroppiare, ma che in realtà sono utili a comprendere che quella rappresentata è tutto il contrario di una storia d'amore e di formazione di un uomo, come l'irruenza iniziale degli eventi potrebbe dare a credere. Alcune scene sono emotivamente intensissime. L'incontro in autobus è irreale e struggente, raggelante, apneico, perfetto, e vale da solo tutto il film, normalmente considerato dalla critica testona uno dei fallimenti, causa sovrabbondanza, di Stanley Kwan, quasi al pari delle presunte imperfezioni di Centre Stage. Red Rose White Rose è invece, su piani diversi e intersecati, di un cinismo devastante, di un'impotenza scorante, di una bellezza da lasciare inebetiti.
Hong Kong, 1994
Regia: Stanley Kwan
Soggetto / Sceneggiatura: Lam Yik Wa, Liu Heng, Stanley Kwan
Cast: Winston Chao, Joan Chen, Veronica Yip
Red Rose White Rose
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- Scritto da Valentina Verrocchio
- Categoria: FILM