Dopo il grande successo della trilogia rovente (City on Fire, Prison on Fire, School on Fire) e in seguito a un periodo di stasi culminato con il flop del patinato Undeclared War, Ringo Lam, per riproporsi sul mercato interno come alfiere del miglior noir decide di mettere mano al seguito di uno dei suoi lavori più riusciti. Nasce così Prison on Fire II, film carcerario che riprende uno dei due protagonisti del prototipo e ne adatta le sofferenze aggiornandole ai temi del momento. Per non ripetersi eccessivamente, pur ricalcando lo schema di partenza dell'opera precedente, il regista calca la mano sulle situazioni limite, sottolineando con enfasi romantica i momenti di quiete preparatori della tempesta. Torna, in una splendida scena iniziale, l'amato detenuto Chung, abbandonato dal vecchio compagno di sventura, abituato a convivere con le triadi e le difficoltà della vita da recluso.
La nemesi è ancora una spietato secondino, incarnazione del male assoluto: al subdolo Roy Cheung subentra l'altrettanto temibile Tsui Kam-kong, imponente volto del lato peggiore di un'autorità da cui bisogna necessariamente allontanarsi, un imperativo lecito e inevitabile alla fuga, drammaticamente ripetuta e sempre fallita.
Prison on Fire II non è solo una dichiarazione di intenti sull'underworld carcerario, ma un monito universale. Il regista abbandona i panni del narratore oggettivo e veste quelli del politico, dell'incitatore delle folle, del demagogo, tradendo ambizioni superiori alla portata dei generi e dei pover'uomini di cui si fa cantore. Messa da parte la mafia, inveisce dal suo pulpito contro la divisione razziale che spacca in due un'unica nazione, quella cinese, colpita a tradimento dal potere (bianco, anche se imposto da funzionari locali). L'amicizia tra due capi, un hongkie e un mainlander, è allora la soluzione migliore per resistere alle angherie che colpiscono indistintamente a destra e sinistra. Peccato che nelle veemenza del contraddittorio la regia, abilissima nel tratteggiare alcuni momenti delicati tra i due anti-eroi che mettono da parte le diffidenze, non lasci poi spazio alle sfumature rivali, applicando ai presunti nemici del popolo un'etichetta, parziale e presuntuoso machismo di circostanza.
Per Lam è soprattutto l'occasione di ritrovare, a qualche anno di distanza, l'amico Chow Yun Fat, e di lasciargli finalmente campo libero. Senza una spalla all'altezza (l'attore taiwanese Chan Chung-yung, per quanto simpatico, non vale l'immensa classe di Tony Leung Ka-fai), Chow non corre il rischio di farsi rubare la scena e può elaborare suo modo un personaggio amabile, un furfante dal volto umano, un gentiluomo distrutto, lentamente, dall'ambiente che lo costringe a compiere scelte di capitale tragicità. Niente più omoerotismo, il male bonding torna alla forma primigenia, all'infanzia, alla reciproca consolazione, senza sottintesi, al vivere comune nella semplicità dei valori quotidiani - la famiglia, il rispetto, la giustizia - da tenere sempre ben presenti. Ma di tutto questo cosa recepisce il pubblico? Probabilmente non molto di più della forma, ripagata ampiamente, anche perché l'handover è sempre vicino, ancora troppo temuto per tentare una razionalizzazione e un passo che non sia di arretramento.
Hong Kong, 1991
Regia: Ringo Lam
Soggetto / Sceneggiatura: Nam Yin
Cast: Chow Yun Fat, Chan Chung-yung, Tsui Kam-kong, Woo Yiu Chung, Yu Li