Jiamei, adolescente confusa e frustrata arrivata da poco a Hong Kong dal continente, finisce invischiata in un giro di incontri sessuali a pagamento da cui è impossibile uscire, se non (letteralmente) a pezzi. La confessione di Ting, pingue e un po' laido fattorino, che afferma di aver ucciso la ragazza, dà il via alle indagini dell’ispettore Chong, ammantate da più di un’ombra: il reo confesso, infatti, asserisce di aver commesso il fatto su richiesta della stessa vittima.
Alla base di Port of Call, terzo film del giovane Philip Yung, c’è essenzialmente una classica storia noir.
Il cadavere di una donna (o meglio, alcune parti di esso) e un solitario ispettore rinchiuso nelle proprie ossessioni, che si confondono ben presto con le indagini sul caso, alla ricerca di un movente e una dinamica che spieghino il mistero di una vita spezzata a diciassette anni. Se il canovaccio è puro noir, la narrazione e i ritmi sono invece quelli della tragedia umanista, con i lunghi flashback che non si fanno scrupolo di evidenziare i momenti più tristi e degradanti della gioventù di Jiamei (interpretata dalla brava Chun Xia). Una vita trascorsa tra filarini mai sbocciati e lavori privi di senso, sufficienti al più a rimediare qualche pezzo di bigiotteria da esibire per qualche falso amico, fino alla scelta – casuale o meno – di entrare nel mondo degli incontri sessuali a pagamento. Un tema, quest'ultimo, che in Oriente (si veda anche il recente Girl$, di Kenneth Bi) sembra essere sempre più centrale, alludendo a un'industria capace, tra siti e chat specializzate, di infiltrarsi ovunque. Accanto alla storia della ragazza si dipana quella parallela dell’ispettore Chong, un brizzolato Aaron Kwok che caratterizza i suoi metodi investigativi più per la discreta sciatteria e per una certa ossessività che per l’uso brillante del metodo deduttivo, il quale da principio pare non fidarsi troppo della confessione di Ting, decidendo così di inoltrarsi nel lato più torbido del caso.
Noir senza mistero, che a tratti si trascina nel pantano di un ritmo a singhiozzo e a cui invero non giova la suddivisione in quattro capitoli, Port of Call è un lodevole esercizio di sceneggiatura sorretto da un sincero interesse per i suoi personaggi — non solo i protagonisti, ma anche il fattorino reo confesso di Michael Ning, e il collega gigione di Chong, con il volto e la pancetta di Patrick Tam. Peccato che, un po' per lunghezza un po' per carenza di fascino cinematografico, nonostante la fotografia di Christopher Doyle, il film finisca per sbarrare la strada alle emozioni dello spettatore, risultando spesso più esposizione didattica di cronaca nera (la storia è ispirata a fatti realmente accaduti) che racconto per immagini. È comunque un altro piccolo passo in avanti per Philip Yung, ancora in attesa di trovare la sua vera dimensione tra cantore dell’adolescenza tormentata e autore di genere indipendente, tra i pochissimi emersi a Hong Kong in questi ultimi anni.
Hong Kong, 2015
Regia: Philip Yung.
Soggetto/Sceneggiatura: Philip Yung.
Cast: Aaron Kwok, Chun Xia, Patrick Tam Yiu-man, Elaine Kam.