Overheard 3

Terzo capitolo di una trilogia anomala, accomunata dagli attori principali anziché dalla continuity narrativa, Overheard 3 rappresenta un nuovo reboot ma trasmette la medesima atmosfera familiare, quella su cui gioca, forse troppo spesso, l'attuale cinema di Hong Kong. Lau Ching-wan, Louis Koo e Daniel Wu, protagonisti di tutti e tre gli episodi e star indiscusse del firmamento hongkonghese, assomigliano sempre più al Rat Pack di Sinatra e Dean Martin o alla sua riedizione moderna di George Clooney e Brad Pitt. Stessa complicità, stesso compiacimento un po' gigione nello scambiarsi i ruoli e nell'indossare nuove maschere, sempre più rutilanti.

Dietro la macchina da presa la coppia collaudata composta da Alan Mak e Felix Chong, ideatori e sceneggiatori di Infernal Affairs, il film chiave dello scorso decennio a Hong Kong: i due non hanno smarrito la capacità di gestire un intreccio complicatissimo e ricco di colpi di scena, come di destreggiarsi tra tecnicismi impressionanti. Attraverso le mirabolanti tecniche di hacking elaborate da Joe (il personaggio di Daniel Wu), Mak e Chong portano la tematica del doppio a un nuovo livello: il dissidio interiore dell'infiltrato diviene moltiplicazione degli schermi dei dispositivi e con essi delle personalità dei personaggi, mentitori incalliti dai segreti aberranti, che si tradiscono in continuazione, quasi il farlo fosse inevitabile e connaturato allo spirito hongkonghese. Un contrasto con il personaggio del facoltoso cinese mainlander - che appare come il più onesto e ingenuo tra i protagonisti della vicenda - che suona sgradevolmente come una concessione ai capitali cinesi della produzione.

Ma gli autori si riscattano, sovrapponendo alla doppia natura degli individui una sovrastruttura altrettanto duale, quella delle affinità e delle divergenze tra la tradizione e l'immagine falsamente bucolica e posticcia della Hong Kong che fu e il volto gelido e spietato (ma in fondo non così dissimile) della capitale del business odierna, in un gioco di contrasti sorretto da una fotografia mirabile. Tecnicamente siamo di fronte all'ennesimo paradigma confezionato da due registi che hanno riscritto l'estetica del cinema hongkonghese (e non solo, considerato il remake hollywoodiano di The Departed - Il bene e il male). I messaggi crittografati tra i Luk, lo sguardo dall'interno alle faccende e agli intrighi dei palazzinari costituiscono altrettanti colpi da maestro e dimostrazioni di un cinema che sa ancora come intrattenere, stupire e donare quantità e qualità in egual misura. Nonostante ciò Overheard 3 non è né si avvicina a Infernal Affairs: come nei due precedenti capitoli si mescolano ansia da prestazione (il dover sempre proporre qualcosa di ancor più stupefacente) e difficoltà nel tirare le somme e prendere una direzione ben precisa. L'epilogo del film in questo senso è esemplare, con la più ovvia e inverosimile delle risoluzioni - in contrasto con l'accurato svolgimento precedente - come unico modo di concludere una vicenda ormai dispersa in troppi rivoli, spesso non necessari (ad esempio le diverse storie d'amore, o accenni delle stesse, che forse funzionerebbero in una serie Tv ma restano abbozzate in un'opera singola).

Ma l'impressione è che dei difetti dei singoli episodi della trilogia, in fondo poco più che onesti prodotti di genere, ci dimenticheremo in favore di uno sguardo all'opera nel suo complesso. Il quadro generale della trilogia Overheard come concetto risulta molto superiore alle sue singole parti e meritevole di un'analisi a sé, per la sua capacità di portare all'estremo i nervi scoperti della società odierna e di scavare nel contrasto ipocrita tra pubblico e privato. La spy-story odierna si gioca scrutando negli scheletri degli armadi molto più che nei complotti internazionali da guerra fredda e pochi l'hanno compreso al pari di Alan Mak e Felix Chong.

Hong Kong/Cina, 2014
Regia: Alan Mak, Felix Chong.
Soggetto/Sceneggiatura: Alan Mak, Felix Chong.
Action director: Dion Lam.
Cast: Lau Ching-wan, Daniel Wu, Louis Koo, Zhou Xun, Lam Ka-tung.


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