Overheard 2

L’operazione che Alan Mak e Felix Chong compiono in Overheard 2 sottolinea - come se ce ne fosse mai stato bisogno - la natura stock di quella che è già una saga, e che ruota su cardini contestuali più che narrativi. Le storyline vengono abitate di volta in volta dai topos e dalle figure più classiche del genere; unico imperativo quello di continuare a vivere all’incrocio tra paranoia da intercettazione e febbre d’alta finanza.

Lì le avevano alloggiate nel 2009 due dei tre creatori di Infernal Affairs, e lì le ritrovano nel 2011 gli autori un po’ incerti di Confession of Pain e The Lost Bladesman. Stesse persone (con un Andrew Lau in più o in meno), ma percorso filmico quantomai incostante. Il mondo di Overheard è per loro un approdo sicuro, tanto da poter apparire diverso in ogni capitolo. La costante sono i tre attori principali, nomi di peso i cui ruoli rispetto al film precedente vengono riassemblati in un curioso balletto dei tre cantoni: ogni personaggio all’opposto di ciò che era, ma senza poter mai intralciare le traiettorie dei colleghi.

Lau Ching-wan si trasforma così in Manson, broker di successo diviso tra scrupoli morali e certe cattive frequentazioni che ne hanno però consentito l’ascesa professionale. Proprio a queste frequentazioni è interessato Joe (Daniel Wu), un misterioso operatore che tiene sotto controllo i movimenti e le conversazioni di Manson nel tentativo di stanare i membri del “Landlord Club”, un gruppo di uomini d’affari ricchi e potenti che controllano l’intero panorama finanziario di Hong Kong. A far luce sulla vicenda viene chiamato Jack Ho, investigatore duro come l’acciaio ma dalla coscienza tormentata.

Benché in altre occasioni (il primo Overheard e il recente Johnnie To di Life without Principle) sia già stata dimostrata l’efficacia e la tensione drammaturgica di una semplice serie di numeri in rialzo o in ribasso su uno schermo, Overheard 2 affianca al pathos di stampo finanziario una robusta dose d’azione sconosciuta al suo predecessore. Ormai capace di moderarsi in piena autonomia, Alan Mak dirige con mano sicura sequenze di godibilissimo rigore, sfruttando a pieno la tracotanza cinetica di Daniel Wu - chiaro vincitore del gioco dei tre cantoni di cui sopra. Più riposizionamento che ripensamento, la (ri)nascita dei personaggi somiglia a un secondo scatto con messa a fuoco più nitida. Il conflitto si storicizza, usando il passato di Hong Kong (e tutte le sue trasformazioni finanziarie e politiche, dal 1973 al 1997) per plasmare i signori del Landlord Club e farne un simbolo di patriottismo eroso dall’avidità, di vecchio orgoglio autarchico trasformatosi in minaccia intestina (l’opposto del villain gustosamente caricaturale di Michael Wong nel primo capitolo, massima espressione del sincretismo della contemporaneità).

Anche i protagonisti, da poveri diavoli che erano nella loro prima incarnazione, diventano qui il frutto di scelte consapevoli; la voce origliata nelle cuffie non è più tentazione beffarda che fa l’uomo ladro, ma tragico strumento di vendetta da impugnare per riparare a torti pubblici e privati. Un passo deciso in direzione dell’epos che rende le psicologie meno sottili e più archetipiche, ma che al tempo stesso alza la posta in gioco e rimedia ad alcuni vuoti di tensione che affliggevano Overheard. A distanza di due anni Overheard 2 sembra un’elaborazione più ragionata (senza mai derogare dal mainstream) del delicato trauma economico-sociale che ha definito il periodo e di cui Hong Kong, come Londra e New York, rappresenta il ground zero. Pur non potendosi permettere lenti d’ingrandimento alla Johnnie To, Mak e Chong riescono comunque - tra un’acrobazia in moto e un pedinamento urbano - a fare dei destini collettivi di una società ferita lo specchio per tre percorsi individuali. In attesa di tornare all’ascolto per la terza volta.

 

Hong Kong/Cina, 2011
Regia: Alan Mak, Felix Chong.
Soggetto/Sceneggiatura: Alan Mak, Felix Chong.
Cast: Lau Ching-wan, Louis Koo, Daniel Wu, Huang Yi, Michelle Ye.

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