Tra gli aspetti che non sono mai stati sviscerati in profondità del cinema di Hong Kong, in particolare quello susseguente alla âge d’or degli anni Ottanta e Novanta, è l’ampia udienza accordata a personaggi appartenenti a fasce di età generalmente considerate poco “cinematografiche”.
Se in occidente una pellicola incentrata su personaggi di mezza età che ottiene un relativo successo al botteghino è considerata qualcosa di molto simile a un miracolo, a Hong Kong la rappresentazione quella zona grigia incastonata fra i quaranta e i sessant’anni è divenuta con gli anni il grimaldello per forzare le resistenze di un’ampia fascia di potenziali spettatori di età analoga, spesso adusi a tenersi lontani dagli schermi cinematografici autoctoni in quanto scarsamente attratti da lavori pensati per un pubblico più giovane, incapaci di rappresentarli anche solo per stereotipi.
Appartiene a tale casistica My Mother Is a Belly Dancer di Lee Kung-lok, già coautore – assieme a Wong Chi-po – dell’interessantissimo Pork Chop (2003), sorta di commistione fra thriller e commedia nera quasi interamente ambientata in un obitorio. Prodotto dalla Focus Films di Andy Lau, la casa di produzione con cui l’attore e cantante si è prodotto alcuni dei suoi titoli più ambiziosi come A World Without Thieves (2004) di Feng Xiaogang e Brothers (2007) di Derek Chiu (senza peraltro farsi mancare nemmeno coraggiosi esperimenti ultra-autoriali come il bellissimo After This Our Exile – 2006 – di Patrick Tam), My Mother Is a Belly Dancer ricama volute drammaturgiche decisamente più leggiadre rispetto al precedente film di Lee, improntate a un ottimismo talvolta stucchevole e a una ricerca persino ossessiva di una comicità situazionale non sempre di primissima mano. Il tema di fondo del film, la crisi di mezza età declinata al femminile e soprattutto esacerbata dalla problematica congiuntura economica che attanaglia Hong Kong, si stempera dunque ben presto in un elogio dell’arte di arrangiarsi, anche là dove questa sembra essere l’unica “arte” effettivamente in possesso dei protagonisti. Spariscono dall’orizzonte referenziale del racconto tutti i possibili snodi dal tenore più problematico, e di fatto si evita di rispondere a una domanda fondamentale che pure sembra affiorare fra le righe della narrazione: cosa fare di quegli individui che la società, silenziosamente, rigetta, per esubero o mancanza di necessità? Come comportarsi nei loro confronti, dove collocarli, come impiegarli, cosa fargli fare? Il film di Lee opta per la soluzione più comoda, e sulla scorta di echi lontani di The Full Monty di Peter Cattaneo dona alle sue tre “casalinghe disperate”, quarantenni ferme a un delicato crocevia delle rispettive esistenze (una è cornificata dal marito con una donna più giovane, una seconda è trattata con sprezzante sufficienza dal marito e dal figlio, la terza si ritrova di punto in bianco senza lavoro e con un marito da sempre disoccupato), la possibilità di una palingenesi attraverso il ballo. Qui è la danza del ventre, pratica che dalle parti di Hong Kong provoca qualche rigurgito moralistico in quanto giudicata, senza mezzi termini, slutty, del tutto inadatta alle donne di costumi morigerati; tuttavia, ben presto le tre amiche cominceranno a prenderci gusto e a frequentare le lezioni con curiosità e interesse crescenti.
La danza come oasi felice lontana dalle miserie di un’esistenza grigia è un luogo comune trasversale. Lo stesso Andy Lau, da attore, ha dato il suo contributo con Dance of a Dream (2001) del quasi omonimo Andrew Lau, che all’epoca, complice l’inclinazione sentimentale dello script, sembrava quasi un’anticipazione di Shall We Dance? di Peter Chelsom. Qui, semmai, siamo dalle parti delle sequenze delle lezioni di danza in Happy-Go-Lucky di Mike Leigh, del quale il quasi omofono Lee riproduce la stessa folgorante comicità, fatta di elementi caricaturali e di pesanti intrusioni dell’imponderabile che sovvertono il naturale flusso degli eventi: sono questi i momenti più efficaci della pellicola, quelli in cui il piacere ludico e dionisiaco legato al ballo si riverbera nella narrazione e nella divertita recitazione delle interpreti principali. È il “controcanto”, semmai, a non funzionare altrettanto bene: i bozzetti familiari, ciascuno abitato da una propria entropia, ricorrono al cliché più spesso di quanto non appaia a un primo sguardo, e alla lunga a rimetterci è la credibilità dell’intero assunto. L’equilibrio fra la parte “seria” e quella “amena” della pellicola risulta così compromesso, e si ha l’impressione di assistere a due film montati assieme alla bell’e meglio, che continuano a scorrere paralleli l’uno all’altro senza incontrarsi mai. Pertanto, se il messaggio finale intendeva postulare che la danza può servire anche come terapia di gruppo per lenire i propri disagi interiori, esso è rimasto in larga parte nelle intenzioni dell’autore.
Hong Kong, 2006
Regia: Lee Kung-lok
Soggetto/Sceneggiatura: Susan Chan, Lee Kung-lok, Erica Lee
Cast: Amy Chum, Lei Suet, Crystal Tin, Pasha Umer Wood, Lam Ka-tung.