Al secondo film Stanley Kwan si conferma autore interessato principalmente al linguaggio del wenyipian, ossia il melodramma ricercato e raffinato. Quattro personaggi in cerca d'amore, fino all'auto-distruzione preannunciata dal titolo: tre donne, una delle quali assassinata barbaramente a scopo di rapina, che nascondono le proprie debolezze dietro una facciata dura, e due uomini, altrettanto fragili. Una cantante, una modella e un'attrice contro il figlio di un ricco imprenditore e uno strano poliziotto, che entra in scena per indagare su un delitto e finisce per rubare spazio ed emozioni ai compagni di viaggio. Aristocratico ma non intellettuale, né pretenzioso, Love Unto Waste è un esercizio di stile che trascende il genere stesso per farsi sostanza. Tanti temi, tanti sentimenti, tanti caratteri, tutti poco appariscenti ma in grado di prendere lentamente forma e di entrare sotto pelle, nervosamente.
Una costante del cinema di Kwan è la prevalenza dell'universo femminile, in cui riesce a infondere la propria visione delle cose. Anche Love Unto Waste, che in questo senso è paradossalmente più eccezione che regola, la storia nasce da esperienze personali traslate (per lo più racconti di amici: molte delle vicende narrate, come l'omicidio della cantante o la lotta per diventare una star del cinema, sono dirette filiazioni di fatti realmente accaduti) e messe su carta come un collage da Yau Dai On-ping e Lai Git. Se la personalità autoriale di Kwan è ancora in divenire, la sua abilità nel condensare emozioni, contenuti politico-morali e sottotrame è già ben presente. La molteplicità di personaggi e comprimari (il padre di Tony, la segretaria del magazzino di riso, la stessa cantante) comportano un necessario approfondimento quasi teatrale dei tempi e degli spazi: nessuno deve prevalere e nessuno deve andare oltre quel sottile limite che porta diritto alla sovraesposizione. In più la trama sa dosare colpi di scena (l'assassinio, piazzato troppo presto per far pensare a un'astuzia da thriller) e momenti di stasi (la notte che segue il funerale), per costruire un pathos che stabilmente non sale e non scende: è la sua costanza a stupire, perché morbosamente non molla mai la presa e costringe lo spettatore a non uscire dai suoi panni fino alla fine, e anche oltre.
Ricco di sottotesti escapisti (la voglia di fuggire, a Taiwan o in Canada) e sentimentali (come, quando e a chi dire ti amo?), Love Unto Waste ha il respiro delle grandi opere. Universale, ma altrettanto peculiare, il suo animo è sconvolto dalla dialettica tra due fattori alternati e opposti, ma mescolati così bene da apparire complementari e indispensabili. Guardando al primo Antonioni (quello verboso di Le amiche), Kwan dipinge quattro anime in pena, le porta ai vertici emotivi e poi ne distrugge ambizioni e speranze: l'unico che vince è il malato terminale, che non ha nulla da perdere e ha goduto, malignamente, nel guardare gli altri tre sprecare la propria vita. Il disorientamento di questi giovani è mascherato da falsi paravento (proprio come accadeva in Nomad di Patrick Tam): gli occhiali da sole, per di più di pessima qualità; il viaggio che parte dalla morte; l'adulterio; l'aborto. Vani tentativo di ripartire da zero.
Hong Kong, 1986
Regia: Stanley Kwan
Soggetto / Sceneggiatura: Lai Git, Yau Dai On-ping
Cast: Tony Leung Chiu-wai, Irene Wan, Elaine Jin, Chow Yun Fat, Tsai Chin
Love Unto Waste
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- Scritto da Matteo Di Giulio
- Categoria: FILM