Her VengeanceChieh Ying lavora a Macao, come responsabile della sicurezza e dei rapporti con la clientela. Commette, nell'esercizio delle sue funzioni, un grosso errore, inimicandosi cinque malviventi che per vendicarsi la stuprano brutalmente. Appresa la terribile notizia di essere stata infetta dall'aids e spinta dalla sorella cieca, Chieh si trasferisce a Hong Kong alla ricerca del cugino Hung, un tempo prode combattente, oggi inchiodato da un tragico incidente su una sedia a rotelle. L'uomo, che ha intuito le vere intenzioni della donna, la accoglie con diffidenza e le offre un lavoro come cameriera nel proprio night club. Proprio qui Chieh, che nel frattempo ha incontrato nel giornalista Siu uno stoico corteggiatore, ritrova il capo della gang e riprende i suoi propositi di vendetta.
La costanza con cui il cinema exploitation hongkonghese torna sullo stupro è di sconcertante lucidità.1 Idem per il sotto-insieme, ancor più crudele, del cosiddetto stupro&vendetta. Her Vengeance di Nam Nai Choi non concede sconti: sporco, grezzo, è un esempio di come la ripugnanza degli argomenti possa essere amplificata da una messa in scena secca e ripetitiva. Le situazioni sono esplorate morbosamente, senza ricorrere al nudo gratuito, ma eccedendo nei toni macabri, nello spirito necrofilo e nel dettaglio grafico sanguinolento. Non è un bel film, in tutti i sensi. Realizzato con scarso senso del ritmo, fotografato senza troppi fronzoli e recitato alla meno peggio da una serie di mestieranti di secondo livello, eccezion fatta per Lam Ching Yung, per una parodica rivisitazione dell'artista marziale storpio dei cruenti gongfupian di shawbrosiana memoria, è una pellicola minore, volutamente malmessa, che con il passare degli anni ha perso ogni possibile giustificazione.
La curiosità fastidiosa non è tanto circoscritta al movente - fin troppo ovvio - né alla possibilità che la legge del taglione venga alla fine applicata, quanto alla discesa negli inferi della povera Pauline Wong, costretta a subire atrocità di ogni tipo prima di poter sputare in faccia ai suoi nemici. E' soprattutto il come che interessa, lucida dissertazione sull'ars pugnandi, con un lunghissimo duello costellato di fantasiosi assalti all'arma bianca a concludere (poco) degnamente la sfida tra la paladina del suo corpo violato e l'atroce arroganza di chi ha commesso il peggiore dei reati. Il pubblico, misogino almeno quanto gli artefici, vuole cibarsi della sofferenza altrui e catarticamente ripulirsi la coscienza: al contrario di prodotti simili, ma molto più curati, come Vengeance Is Mine di Lee Chi-ngai o la serie Raped by an Angel, il gioco stavolta funziona poco e male, gli anni passati lasciano il segno più del previsto e tra una riga e l'altra, moralisticamente, affiora un senso di disgusto che, una volta fatto esplodere il bubbone purulento, non può non nauseare qualsivoglia platea.

Note:
1. «Lo spettatore scopofilo dà sconcertante prova di ineffabilità anche quando trova appagamento, sul piano della partecipazione sadica (il personaggio che soffre al posto dello spettatore è stato creato per questo: nessun rimorso), nella degustazione, fotogramma dopo fotogramma, della tortura fisica e psichica inflitta all'agnello sacrificale di turno a opera del solito branco di balordi e senzapatria.» Roberto Curti, Tommaso La Selva - Sex and Violence (Lindau, 2003 - pag. 201).

Hong Kong, 1988
Regia: Nam Nai Choi
Soggetto / Sceneggiatura: Woo Suet Lai
Cast: Pauline Wong , Lam Ching Ying, Elaine Kam, Sit Chi Lun, Kelvin Wong

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