Bisogna cominciare con una premessa: questo non è un film di Jackie Chan, ma di Vincent Kok. Non sarà una rivoluzione, ma un cambio d'intenti si vede chiaramente. Jackie Chan finalmente smette di fare lo stesso tipo di film che lo ha tenuto a galla, con grandi incassi, negli ultimi dieci anni e decide di cambiare qualche carta in tavola. Certo non c'è in Gorgeous un rinnovamento di tutti i tòpoi classici del suo cinema, ma è importante vedere la rinuncia a quei luoghi comuni che stavano diventando stucchevoli. Niente ricerca di un cinema solo fisico, con combattimenti ben diretti ma slegati dal contesto della trama; al contrario sono i combattimenti ad essere fuori tema, sorta di surplus non necessario che addirittura appesantisce il contesto.
Primo dato importante: dopo le ultime trasferte si torna a girare a Hong Kong e a recitare in cantonese. Aiutato dalla solida regia di Kok (ancora sottovalutato, invece è un genio) e da un cast di comprimari finalmente all'altezza del budget (oltre alla bellissima Shu Qi e a Tony Leung Chiu-wai, Lau Yee-tak, divertente spalla comica, e Stephen Chow, per un cammeo ricambiato in King of Comedy), l'attore cinese spinge l'acceleratore verso una commedia romantica carica di buoni sentimenti. L'occhio è sempre più rivolto alla sophisticated comedy della Hollywood di successo - citati i musical di Fred & Ginger e blockbuster come Rocky e Le parole che non ti ho detto -, come dimostrano «il tono da fiaba, la bonarietà, i buoni sentimenti, uno sguardo scanzonato alla miseria» e qualche similitudine narrativa con L'eterna illusione (1938) di Frank Capra (regista che Chan ama citare e del cui Angeli con la pistola ha diretto anche un remake).
Di derivazione chiaramente statunitense anche l'intenzione di usare il cinema come veicolo di contenuti positivi. Sembra diventata un'urgenza per Jackie sfumare i toni tra buoni e cattivi, tra vincitori e sconfitti, a beneficio di un lieto fine necessario, che risulta anche fastidioso nella sua politically correctness. Risulta non difficile leggere nello script una contestualizzazione socio-politica - la critica agli hongkonghesi, troppo legati al culto del denaro e del mito del self made man - ma è molto semplificata e rozza e rischia di non essere presa sul serio e di diventare autoparodia.
La storia non è per nulla originale (una rielaborazione del mito di Cenerentola in chiave ecologista) ma pone un interessante accento sul carattere del protagonista, sentimentalmente immaturo e arrogante: Jackie, ricco e viziato, deve infatti prima subire la sconfitta, fisica e mentale, per poter crescere e ritrovare la stima e la fiducia in se stesso e per meritare l'amore di una ragazza ingenua ma spontanea. La sceneggiatura struttura il film come il più classico dei racconti di formazione e tutto il cast sta al gioco, recitando discretamente e combattendo altrettanto bene. Gli stunts, elemento indispensabile, sono coreografati in maniera interessante, disegnati come balletti, con tanto di macchina che resta a lungo sul movimento delle gambe, basandosi sul ritmo dei corpi.
Si nota purtroppo anche una certa stanchezza in Jackie, un senso di sconfitta che va al di là della caratterizzazione del suo personaggio: che il nostro eroe si sia definitivamente stancato delle solite pose e del suo status? L'impressione che se ne ricava è quella di un doppio livello, difficile da sostenere, di eroe buono e vincente ma intrappolato nei suoi clichés. Di una persona che è prima di tutto un modello pubblico e poi uomo di cinema. Il che lo porta, viste anche le sue ultime uscite, cinematografiche a non potersi permettere errori di percorso e a non voler rischiare un diverso approccio verso un cinema meno banale.
In fuga per Hong Kong
Hong Kong, 1999
Regia: Vincent Kok
Soggetto / Sceneggiatura: Vincent Kok, Jackie Chan, Law Yiu Fai
Cast: Jackie Chan, Shu Qi, Tony Leung Chiu-wai, Bradley James Allan, Richie Ren