Il ritorno di Herman Yau all’horror è un tuffo nel passato, nella nostalgia del divieto, della scorrettezza. L’apertura sui titoli di testa, per quanto esteticamente sciatta, è programmatica: una lap dance improvvisata e un nudo femminile ostentato senza timori. L’epilogo del film prevede lo stesso stratagemma, con in più il sangue che catarticamente chiude un discorso di violenza che ha permeato l’intera pellicola.
Il commissario Rockman è perseguitato da un criminale cui anni prima ha sparato durante un arresto. Per farsi giustizia l’uomo fa infatti ricorso alla magia nera, il gong tau, colpendo la moglie e il figlio neonato del poliziotto. Per arrivare ad una soluzione Rockman, aiutato da un collega più esperto, consulta uno sciamano e usa le stesse armi sovrannaturali del suo nemico, la cui sete di vendetta è legata ad un adulterio consumato sette anni prima in Thailandia. Nel momento in cui la potente maledizione sembra sconfitta, con il detective che si appresta a mettere le mani sul colpevole, Rockman scopre che la verità non è così semplice come pensava, e che movente e colpevole forse non corrispondono ai suoi sospetti iniziali.
Gong Tau: An Oriental Black Magic è un piacere proibito vietato ai minori, uno di quei paradossi multisfaccettati che, piaccia o meno, ha reso popolare il cinema di Hong Kong dei decenni precedenti presso il grande pubblico, anche occidentale. La distanza ideologica da Ebola Syndrome (1996) o All of a Sudden (1996), diretti dallo stesso Yau, è poca, sorpassata a sinistra dal richiamo a quel filone di metà anni ’80 che coniugava sesso, superstizione e splatter. Al pari di Devil Fetus (1983, di Lau Hung Chuen), o di Centipede Horror (1984, di Keith Li), di cui richiama diverse scene truculente a base di insetti e bassa scatologia, il film si fa portatore di una morale che vede il profondo Sud Est asiatico, nella fattispecie un’ancestrale Thailandia, come un grembo di maledizioni e magia nera da non sfidare. Stride il contrasto tra la «civile» Hong Kong e il primitivo villaggio dove i selvaggi ancora si affidano a riti magici per vendicare i torti subiti, più che altro perché la finzione ipocrita delle parti è puramente teatrale: il poliziotto che vorrebbe raddrizzare i torti è in realtà un puttaniere incapace di ammettere la verità con la moglie; il criminale, a conti fatti, un povero reietto innamorato di una donna fragile dalle speranze d’amore tradite.
La regia, consapevole degli evidenti limiti di budget, nonostante concorrano tre case di produzione, fa di economia virtù e non spreca nulla. In primis giostra a dovere le location, alternando le strade notturne mal illuminate e le baracche fuori porta che aggiungono fascino folkloristico ad uno scenario altrimenti troppo moderno. Non avendo a disposizione attori di punta Yau lavora sul gruppo e sulle paure collettive, coinvolgendo nella storia, da lui scritta a quattro mani con Lam Chun-yue, non solo il protagonista Mark Cheng, icona storica del Cat. III politicamente scorretto oggi un po’ imbolsito, ma anche quei comprimari che in altre occasioni hanno dato buona prova di sé sotto Johnnie To: Hui Siu-hung, Lam Suet e Maggie Shaw. Il risultato finale è rivedibile: intenso nella sostanza ma poco efficace quanto a forma, pura merce exploitation priva di brividi eppure capace di generare disgusto per le rozze soluzioni grandguignolesche. Abolito il fuori campo, l’occhio dello spettatore affonda in un abisso di viscere, teste volanti, bambini seviziati, arti mozzati, ogni volta esibiti con compiacimento in primissimo piano. Il teatro dell’orrore diventa allora un palco rosso fuoco, dominato da pulsioni terrene e carnali mai dome, dove l’eccesso è il vero intrattenitore, purtroppo solo a patto di rinunciare alla coerenza narrativa di fondo e di abbandonarsi ai cliché.
Hong Kong, 2007
Regia: Herman Yau
Soggetto / Sceneggiatura: Herman Yau, Lam Chun-yue
Cast: Mark Cheng, Maggie Shaw, Lam Suet, Kenny Wong, Hui Siu-hung