Due vite apparentemente agli antipodi si trovano, per un perverso gioco del destino, a convergere fino (quasi) a toccare il medesimo fondo. È questo, in estrema sintesi, l’assunto di base di Bends, lungometraggio di debutto - presentato a Cannes nel 2013, nella sezione Un Certain Regard - di Flora Lau, ex analista economica con un breve trascorso professionale presso la Morgan Stanley e alcuni apprezzati cortometraggi in curriculum.
Le vite in questione sono quelle di Anna, facoltosa e annoiata esponente della upper class hongkonghese che trascorre le giornate passando da un pranzo con le amiche del medesimo censo a una stanca attività di beneficenza; e di Fai, il suo autista, cittadino di Shenzhen, dall’altra parte del confine con la Mainland, ma con seconda cittadinanza hongkonghese. Entrambi i personaggi devono affrontare un imprevisto collasso del loro orizzonte esistenziale.
La moglie di Fai, che risiede con la figlia della coppia in un quartiere popolare di Shenzhen, è di nuovo incinta, ma la famiglia non può permettersi di pagare la salatissima multa prevista dal protocollo di controllo delle nascite cinese nei confronti di chi mette al mondo più di un erede; Fai è dunque costretto a progettare un improbabile espatrio clandestino per fare in modo che la moglie partorisca in un ospedale di Hong Kong, evento che garantirebbe al resto della famiglia la residenza nella ex colonia britannica. Dal canto suo, Anna si trova da un giorno all’altro a fronteggiare la scomparsa, apparentemente immotivata, del marito, con tutto ciò che ne consegue: carte di credito bloccate, la retta scolastica della figlia inevasa, e infine l’ordine di vendere la casa in cui abita. Anna e Fai imparano entrambi a vivere di espedienti, cercando al tempo stesso di salvare le apparenze, ma le rispettive condizioni di bisogno, tanto diverse in apparenza quanto simili nella sostanza, li porteranno presto a solidarizzare.
La produzione di Nansun Shi, l’apporto di due divi come Carina Lau - sempre più altera e dolente, quasi una Gloria Swanson orientale - e Aloys Chen, persino la fotografia di Christopher Doyle: quasi troppa grazia per un’esordiente. La quale, tuttavia, da ex espatriata costretta a confrontarsi con la mutevole identità “liquida” di Hong Kong e della sua popolazione, dimostra di saper gestire con una certa agilità i temi e i quesiti che lo script - opera della stessa regista - mette sul tavolo. I rapporti con Pechino, le distonie legali fra il governo centrale e l’amministrazione autonoma di Hong Kong, la bolla di de-umanizzante illegalità provocata, direttamente o meno, da tali differenze, che incidono sugli stili di vita e sulle scelte individuali. Al tempo stesso, la parabola di Anna mette in mostra come molto del benessere esibito dalla classe dirigente hongkonghese nasconda la fragilità endemica di una società iper-edonista, che spinge i propri cittadini al limite delle loro possibilità senza premunirli di un adeguato paracadute sociale. Tuttavia, alla regista non interessa perorare una tesi: il suo sguardo scivola rapidamente dalla lotta di classe - e da un’antipatica quanto forse inevitabile reminiscenza di A spasso con Daisy di Bruce Beresford - a un impianto narrativo più umanista, che parla di solidarietà tra individui e della necessità di riconoscersi nell’altro in una terra che ancora oggi è frontiera, sia geografica che emotiva.
Hong Kong, 2013
Regia: Flora Lau.
Soggetto/Sceneggiatura: Flora Lau.
Cast: Chen Kun, Carina Lau, Tian Yuan, Lawrence Cheng.