Il nome di Donnie Yen è ormai assurto a sigillo di qualità per il cinema di Hong Kong, dal livello medio-artigianale in su. L’attore marziale ha saputo tenersi al riparo nel momento di peggior crisi per rientrare in scena quando le stelle ricominciavano a splendere: l’apice di questa sagacia contribuisce al rifiorire del cinema d’azione in costume. Ne è l’ennesima riconferma 14 Blades, dai valori (co)produttivi elevati, che oltre a rilanciare il wuxiapian vecchio stile rimette definitivamente in carreggiata un regista come Daniel Lee, promettente tre lustri orsono ma proveniente da diversi flop. L’aria della storia fa bene a tutti, a chi produce, a chi scrive una storia fitta di intrecci e di politica, a chi si preoccupa di coreografie, fotografia e costumi, e soprattutto a chi si posiziona indefesso di fronte alla macchina da presa in attesa del fatidico ciak, pugni levati e ginocchia flesse come si conviene prima di una sana scazzottata.
Donnie Yen è un jinyiwei (parola che è anche il titolo originale del film), il componente di un esercito segreto formato da assassini abilmente addestrati per difendere i potenti: messe le mani su un sigillo reale che in grinfie sbagliate scatenerebbe stragi a non finire, decide di tradire i suoi ordini per proteggere il bene della nazione e ritrovare la sua dignità. Una scelta difficile, che comporta un percorso quasi impossibile fatto di fughe, sangue e duelli contro avversari sempre più temibili. Al suo fianco, la bella e stoica figlia del capo di un’agenzia di scorte e un predone del deserto cui interessa più la gloria dell’oro.
14 Blades è un giocattolo ben oliato. Si prende sul serio quel tanto che basta per poter essere spacciato agli occhi di critica e platea come prodotto superiore al semplice intrattenimento, anche se questa è poi la sua anima specifica. Richiama l’esperienza del wuxia moderno, l’ondata di metà anni Novanta, e la fa sua con una serie di caratteristi che prestano corpi e volti alla bisogna, da Sammo Hung a Chen Kuan-tai. In più riprende dai classici Shaw quell’estetica polverosa da spaghetti-western già riverniciata dal cinema di Takashi Miike e da The Good, the Bad and the Weird (2008, di Kim Jae-Woon). Ugualmente sbrindellata ma dalla fattura piccante, la regia di Lee rielabora stilemi e canoni, ruoli chiave del genere e topoi coreografici, con rallenti e luci flou nei momenti giusti. La tattica, piaciona e superficiale quel tanto che serve per non stancare, funziona talmente bene da oscurare i debiti e difetti: tanto che il videoclip finale, con i momenti salienti a sottolineare il dramma, sa più di omaggio al passato che, per come il trucco è speso a più riprese, di marchetta kitsch per inchinarsi al pubblico nostalgico e spillare l’obolo della misericordia.
2010, Hong Kong/Cina/Singapore
Regia: Daniel Lee
Soggetto/Sceneggiatura: Daniel Lee, Abe Kwong, Mak Tin-sue, Lau Ho-leung, Chan Siu-cheung
Cast: Donnie Yen, Vicky Zhao, Wu Zun, Wu Ma, Kate Tsui