Ann Hui ribalta la retorica da cronaca nera riguardante Tin Shui Wai, quartiere di Hong Kong nell’occhio del ciclone giornalistico per i problemi di criminalità e violenza, e sceglie di raccontare una storia dal sapore quotidiano che parla di piccole conquiste - della vittoria dell’uomo sul contesto degradato in cui è costretto a vivere. Con uno sguardo umanistico, partecipe, ma assolutamente non intrusivo, come nel già infuocato Ordinary Heroes (1999), la regista della new wave hongkonghese torna tra la moltitudine operosa e invisibile per far emergere la forza dei legami spontanei, in grado di attecchire tra le rovine, dove tutti sono disposti solo a vedere abbandono e inciviltà.
La signora Cheung, donna di mezza età, e Ka-on, suo figlio adolescente, vivono tra labirintici casermoni di cemento. Il piccolo nucleo familiare si barcamena appena oltre la soglia di povertà grazie al lavoro al supermercato di lei, nel reparto frutta e verdura. In questo contesto parco, durante la pausa scolastica estiva Ka-on aiuta la madre come può, un po’ svogliatamente, ma con cuore, assistendo insieme alla cugina la nonna malata. Nei legami di sangue si inserisce un’anziana signora, allontanata dalla famiglia e costretta a vivere sola. The Way We Are, con quell’incedere tra il documentario e il neorealista, attento a gesti insignificanti e reiterati, racconta dell’unità nella disperazione, di quel senso di cooperazione che può creare legami oltre le barriere dell’egoismo. Per esporre questa evidenza, viene utilizzato un doppio binario: da un lato l’attenzione dei nipoti per la nonna, di nuovo ricoverata in ospedale, evento che, alla lunga, riesce a riunire tutta la famiglia allargata; dall’altro l’ingresso in scena di un’anziana sola ed evidentemente sperduta, che trova prima nella signora Cheung, poi anche in suo figlio, uno spiraglio di sollievo e calore umano, arrivando con naturalezza a sentirsi parte di una rete più grande, nonostante sia stata allontanata dalla famiglia originaria.
Ann Hui compone un’elegia dei legami sociali che partono dal basso – in opposizione alla dispersione giovanile messa in scena in Besieged City, di Lawrence Ah Mon, ambientato nello stesso quartiere e uscito pochi mesi prima al cinema. L’idea di una società giusta che funzioni anche in assenza di leggi e garanzie, grazie alla semplice apertura all’altro di ogni singolo, trasforma l’utopistica semplicità della storia in un ritratto composito, sfaccettato, in cui i silenzi e la relativa staticità delle inquadrature contribuiscono a ridare un’immagine vivida e non banale della quotidianità. Tin Shui Wai è una realtà incomprensibile solo per chi si ferma alla scorza: è quanto emerge dalla metafora dei durian - i frutti dall’aspetto di meloni uncinati che la protagonista vende al bancone del mercato, inquadrati a lungo e in più occasioni. Per gustarli si deve saper vibrare il colpo alla giusta inclinazione, come insegna pazientemente la madre al figlio, solo così si può arrivare alla polpa. Per interpretare la realtà è dunque necessario osservare dalla giusta prospettiva: la collettività, nel suo senso meno retorico e più pragmatico, è l’unica arma di difesa contro la schizofrenia del presente urbano, quella che fa emergere la vivibilità di un microcosmo nonostante le aberranti statistiche sul crimine.
Hong Kong, 2008
Regia: Ann Hui
Soggetto/Sceneggiatura: Lou Shiu-wa
Cast: Pau Hei-ching, Leung Chun-lung, Ida Chan, Chan Lai-hing, Lee Kwok-sang