Dopo un debutto che per molti versi si avvicina alla quintessenza del film sulla peculiarità di Hong Kong e sulla sua alterità (Made in Hong Kong), Fruit Chan riesce nell'impresa di girare qualcosa che lo superi per intensità. Un capolavoro la cui visione degna, complice una distribuzione scarsa e la presenza di copie senza un adeguato widescreen, resta un privilegio di pochi. Fortunati e insieme sfortunati, perché The Longest Summer, allucinazione apocalittica, sequenza schizzata di inquadrature imprescindibili ed eventi angoscianti, non si dimentica a distanza di anni e perseguita come un fantasma annidato nell'inconscio.
Solo in parte un film sull'handover – ma nonostante ciò resta il film sull'handover – The Longest Summer è un’indagine all’interno di un cranio scoperchiato, di una psiche sottoposta a ogni genere di interrupt, bombardata dal rimpianto, dal rimosso, dall'ansia di un domani incerto, dalla necessità di ripartire senza avere idee né strumenti per farlo. Nessuno come quattro commilitoni di un esercito coloniale che non c'è (mai stato) può incarnare meglio lo smarrimento della città-(non)-stato (due dei quattro sono effettivamente ex-militari, presi dalla strada come buona parte del cast). Come se Rambo (First Blood, Ted Kotcheff, 1982) si mescolasse alla visione profetica di Dangerous Encounters: 1st Kind (aka Don’t Play with Fire, Tsui Hark, 1980), concentrando nell'inespressività muta di Tony Ho l'assenza totale di punti di riferimento, che la macchina da presa contribuisce a rimuovere con metodo sadico e puntiglioso. Guance forate da proiettili ed esplosioni di violenza inattese e impensabili coesistono con il lirismo, così insistito da apparire quasi parodistico, di camicie, caschi o pistole lanciate con gesti platealmente cinematografici senza un destinatario certo. Ma forse tutto è racchiuso nella prospettiva dal basso di una casa popolare che sa di inferno, l’allucinazione di un neonato troppo cresciuto, costretto ad aprire gli occhi in un mondo nuovo che non gli appartiene, ma che si presenta in tutto e per tutto come quello che non gli è mai appartenuto. (es)
31 Marzo 1997, il corpo speciale hongkonghese dell’esercito britannico si scioglie in vista dell’imminente ritorno della colonia alla Cina: Ga Yin (Tony Ho, all’esordio), ormai ex-sergente senza mai aver combattuto, e i suoi uomini si ritrovano paracadutati in una città che ribolle inquieta nell’attesa.Tra chi galleggia a vista in un mare che non comprende c’è anche chi nuota inconsapevole, nella propria gioventù; e di comprendere non si pone nemmeno il problema. Ga Suen (ancora Sam Lee, l’Autumn Moon di Made in Hong Kong), il fratello minore di Ga Yin, lavora in un mondo a metà tra il sommerso e l’emerso, guadagna i soldi dalla malavita, ma tutto sembra pulito. Sono proprio i genitori, in costante preoccupazione per il denaro, a spingere Ga Yin a lavorare con il fratello più piccolo; è così che l’ex-sergente diventa autista di un capo malavitoso e che il groviglio di un’identità perduta si fa mano a mano sempre più serrato e inesplicabile. La via d’uscita sembra essere la rapina a una banca, che i due fratelli organizzano con gli ex-commilitoni; ma, arrivati al momento di agire, un caso imprevisto sconvolge i loro piani, con lo zampino di Jane (Jo Kuk, anche lei esordiente) che si scopre essere la figlia irrequieta del capo di Ga Yin.
Un cielo notturno invaso e quasi violentato dai fuochi artificali delle cerimonie per la riannessione guarda le vite dei due fratelli trovarsi e perdersi lungo il percorso di un estate che nell’obiettivo di Fruit Chan segna un buco nero nella storia di Hong Kong. Un passo più politico di quel che è stato il primo episodio della trilogia di Chan sull’handover, Made in Hong Kong, e che poi si concluderà con Little Cheung, The Longest Summer parla una lingua densa, in cui l’accumulo di vicende e punti di vista della prima ora si svolge in narrazione più coerente nella seconda parte. Un cinema che si lascia scorrere liquido e, al momento giusto, affonda le unghie e fa male. Un cinema senza lacrime e senza stampelle. Un cinema di responsabilità, ancora una volta fatto con attori presi dalla strada, che non recitano ma vivono la scena, con grande merito di un regista dal tocco magico. Fruit Chan, che cura molto bene anche il montaggio, stavolta trasforma la materia della cronaca, coadiuvato da gran parte della troupe, con Lam Wah Chuen alle musiche e alla fotografia ed Andy Lau alla produzione – ma anche interprete del motivo musicale – , in quella che diventa storia in fieri. Per ricominciare bisogna dimenticare. (pv)
Hong Kong, 1998
Regia: Fruit Chan
Soggetto / Sceneggiatura: Fruit Chan
Cast: Tony Ho, Sam Lee, Jo Kuk, Gary Lai, Chan Sang