The Black RoseUna misteriosa ladra mascherata, che ruba ai ricchi per donare ai poveri, mette in apprensione le autorità e le possibili vittime. E' suo stile annunciare ogni colpo con una lettera, in cui anticipa bersaglio e orario del furto, e poi colpire improvvisamente per sparire nel nulla, lasciando come unica traccia del proprio passaggio una rosa nera. Sulle tracce della criminale si mette un ambizioso investigatore assicurativo che ha il compito di recuperare un prezioso anello sottratto ad una festa. L'uomo, che dopo le prime indagini riesce a collegare la ladra con due facoltose sorelle, sfida apertamente la sua preda, con la quale intavola un rischioso gioco di abilità e intelligenza.
Apice di un periodo, la prima metà degli anni '60, di grande fermento produttivo per il cinema cantonese, The Black Rose di Chor Yuen ne rappresenta bene lo spirito frenetico. Costato relativamente poco, girato quasi esclusivamente in interni, in un bianco e nero spettrale che riflette fin troppo bene la povertà in origine, si ciba della bravura delle due protagoniste, l'ammaliante Nam Hung e Connie Chan, contrastate dall'altrettanto affascinante Patrick Tse. Le atmosfere del giallo rosa e i toni leggeri della recitazione disinvolta non comportano però un totale disimpegno: il discorso che riprende Robin Hood e lo attualizza alla società hongkonghese è di presa immediata, come la risposta, non meno pragmatica, del detective in cerca di una soluzione meno intransigente ("Dopo aver speso i soldi, il povero tornerà ad essere povero, e il ricco nonostante la perdita continuerà ad essere ricco").
Colpisce semmai la vitalità dell'insieme, la perfetta funzionalità di tutti gli elementi in campo: la sceneggiatura capace di tenere viva l'attenzione dello spettatore giocando al momento giusto i colpi di scena e non insistendo su situazioni eccessivamente cupe, da thriller; gli stacchi simpatici, anche grotteschi, a sdrammatizzare i momenti di maggior tensione; le poche sequenze d'azione brillantemente condotte; la colonna sonora, derivativa (ruba anche dallo score del primo James Bond), ma incalzante; lo spirito goliardico e la spregiudicatezza nel coniugare stili, caratteri e tendenze quasi opposte; la regia che preme sull'acceleratore nei momenti chiave, per il semplice gusto di intrattenere e divertire ogni genere di spettatore.
Il vero vincitore è allora l'artefice, Chor Yuen, che senza una vera sceneggiatura, ma improvvisando durante le riprese inaugura un sottofilone di grandissimo successo, sfidando in casa propria gli irraggiungibili prodotti in mandarino delle major, consolidando lo status delle star coinvolte e la propria posizione privilegiata di cantore dei tempi moderni. Tanto da mettere immediatamente in cantiere un seguito ufficiale, ancora più fuori controllo, come The Spy with My Face, e da scatenare nel breve periodo una bagarre continuata a base di eroine femminili e mondi avventurosi tutti (ancora) da scoprire nel loro splendore e nella loro immediata vitalità.

Hong Kong, 1965
Regia: Chor Yuen
Soggetto / Sceneggiatura: Hoh Bik Gin
Cast: Nam Hung, Connie Chan, Patrick Tse, Lee Peng-fei, Yeung Yip-wang