Vita travagliata, fulgori di celluloide, scandali privati, morte autoinflitta e infinite resurrezioni al nitrato, della più grande icona cinese del muto, Ruan Lingyu (1910-1935). Gli uomini (l’amante Chang Ta-min, il regista e ultimo amore Cai Chusheng), l’amicizia (la collega Lily Li), i film (gli estremi The Goddess e New Women in testa) di un’attrice dal carisma immortale, di un personaggio denso di risonanze tragiche.
Materiale esplosivo, quasi strabordante, approcciato da Kwan tramite un intricato gioco di specchi la cui brillantezza di mise en abyme nulla toglie all’incandescenza mélo del tutto. Noto è che il regista avrebbe in origine voluto Anita Mui nel ruolo del titolo, rispecchiando le esperienze (tra set e gossip) dell’eroina di Rouge in quelle di Ruan. Impedito in ciò dal rifiuto dell’attrice di lavorare in Cina dopo il massacro di Tiananmen, Kwan trova nel «ripiego» Maggie Cheung (premiata – prima cinese nella storia – da un Orso d’oro al festival di Berlino) una presenza quasi altrettanto magnetica, meno somigliante all’originale ma forse per questo più aderente all’impianto teorico del biopic, al suo lavorare di sponda sul genere.
I piani su cui l’opera si articola sono infatti almeno 5: frammenti di pellicole sopravvissute di Ruan; loro ricostruzione filologica; scene pubbliche e intime della sfortunata diva; interviste di Kwan ai suoi attori e a testimoni della golden age del cinema di Shanghai; backstage. Una mirabile architettura di slittamenti semantici che riesce a fissare – come a nessun altro film contemporaneo da oriente a occidente è riuscito – la volatilità della memoria (memoria di un cinema sparito, distrutto con pervicace trasandatezza e per forza d’amore e stile reinventato; memoria di sentimenti che corrono come fumo spinto dal vento via dalle vite degli uomini e delle donne); e a esplorare la «macchina» cinematografica, in tutte le sfaccettature del termine, come luogo assoluto di (s)perdimento e salvezza.
Con momenti sublimi di cortocircuito, come la Ruan Lingyu in camera ardente trasmutantesi nella Maggie Cheung in apnea che torna al respiro dopo il cut di Kwan. Momenti inesorabilmente cassati nella terribile versione corta approntata dalla produzione, che sforbicia di mezz’ora i 154’ originali, perpetrando un delitto su pellicola di livello ciminiano. Certo è che Kwan non avrebbe più raggiunto tale acme di intelligenza fiammeggiante, pur tornando più volte sul luogo del delitto (la Shanghai mitica di Red Rose, White Rose e dell’inizio di Everlasting Regret). E anche per la Cheung l’eleganza nel ballo e nel fumo, il fragile orgoglio nell’amare, la composta dignità nel morire, il coraggio nell’essere Lingyu, rimangono il suo più grande lascito d’attrice. Alla sceneggiatura collabora Peggy Chiao, vera e propria factotum del cinema taiwanese.
Hong Kong, 1992
Regia: Stanley Kwan
Soggetto / Sceneggiatura: Yau-dai On-ping
Cast: Maggie Cheung, Tony Leung Ka-fai, Chin Han, Carina Lau, Lawrence Ng