The Haunted Cop ShopJeff Lau è un cineasta poliedrico, così ricco di inventiva e amante delle contaminazioni da poter assurgere a modello di un intero panorama, anche di uno ricco, variegato e difficilmente sintetizzabile quale il cinema cantonese. Parte affiancato agli agitatori della New Wave, produce The Imp e Coolie Killer, partecipa come supervisore di produzione a Man on the Brink e gira il rozzo Hong Kong Butcher, un procedural thriller tratto dalla stessa truce storia che ispirerà Dr. Lamb. Però non si associa in pianta stabile al movimento né vi aderisce a livello ideologico. Lau ha le idee chiare e segue un percorso personalissimo che, nel rispetto di generi e commercialità, potremmo definire anche autoriale. Socio di Wong Kar-wai1 nella Jet Tone, senza mezzi termini Lau oggi è l'unico possibile discendente di Chor Yuen, cui può essere comparato per spirito di trasgressione e capacità di maneggiare - e conciliare - materiali apparentemente diversissimi.
I primi successi risalgono alla seconda metà degli anni '80, quando cavalcando il boom dell'horror comico gira in serie pellicole assurde e divertenti come i due Tje Haunted Cop Shop o Operation Pink Squad II. Ricchi di trovate, surreali, grotteschi, i suoi lavori sono facilmente riconoscibili. E' uno stile nello stile, che Alberto Pezzotta definisce «consapevolezza: [...] non è la scappatoia per cui l'autore di un'idiozia si rifugia nell'a parte [...], ma il gusto di vedere fino a che punto si possa arrivare, e quali nuovi innesti si possano tentare.»2. La sua principale virtù è il sapersi accontentare dei materiali, anche scarsi, a disposizione (soprattutto per quanto riguarda gli attori), e di saperne sempre trarre fuori qualcosa di ingenioso, di magico: in Mortuary Blues può contare su un cast disperatamente assortito, ma senza lamentersene cuce addosso a ciascuno dei suoi interpreti un personaggio ad hoc: il caracollante regista Corey Yuen diventa un prode poliziotto, Sandra Ng la zitella assatanata che tutti respingono, il compositore Lowell Lo una variabile impazzita dietro una maschera clownesca. Il finale esagerato e l'esplorazione dell'antro - un misto di Indiana Jones e di un platform demenziale - sono pezzi di innegabile bravura, in cui Lau estrae con precisione chirurgica il succo comico delle situazioni portate ogni volta alle estreme conseguenza.
Non è un caso che un autore di tal fatta, che non ha paura di sporcarsi le mani e anzi preferisce maneggiare scatologia e spirito povero, finisca a flirtare con i filoni più biasimati: l'horror demenziale, appunto, così come la degenerazione del wuxiapian o la parodia decerebrata del noir a base di gioco d'azzardo e gamblers. L'attualità del suo cinema onnivoro non dimentica mai la cultura cinese cui è riferita né la tradizione, riproposta in chiave paradossale: si vedano per esempio gli strabilianti finali in costume di Mortuary Blues e The HauntedAll for the Winner Cop Shop II. Ma è anche capace di ibridare il classico con il profano, il sacro con il pacchiano, e grazie a questi contrasti inventa dal nulla un cinema oltre il concetto di pre e post applicato alla modernità. Con All for the Winner spiana la strada del successo a Stephen Chiau, incontrato in tutt'altre vesti sul set di Thunder Cops II, un thriller teso e violento, e da allora suo fedele compagno di viaggio. Lau è senza dubbio il regista che meglio valorizza il talento del mattatore comico, permettendo al suo moleitau di esplodere definitivamente e di diventare un'arma di conquista - le prede sono il box office e l'audience - che non prevede prigionieri ma solo vittime. I due sono in sintonia, non solo quanto a demenzialità degli intenti, ma anche per il gran dispiego e l'anarchia dei mezzi usati per i loro fini. Se Chiau è dunque l'idiota che cerca di dominare un mondo caotico, Lau è il burattinaio pazzo che si serve di una simile marionetta per divertire e meravigliare.
Dalla prima metà degli anni '90 cambia qualcosa, il suo stile si evolve ulteriormente per giungere a piena maturazione. A livello personale coincide con un veto impostogli dalle triadi, che gli impongono, cosa purtroppo comune nell'ambiente del cinema, un anno sabbatico. Lau aggira il problema stringendo un patto di ferro con David Lai e Corey Yuen, con cui ha sempre lavorato con piacere: crea una sorta di piccola factory da cui nascono lavori girati in collaborazione, spesso senza che Lau ne sia accreditato. Con 92 Legendary La Rose Noire, attribuito al prestanome Chan Sin Ji, riscopre a modo suo i ruggenti anni '60 e apre un piccolo trend che terrà banco per un paio d'anni, nel segno della rivisitazione nostalgica dei classici quasi dimenticati del cinema cantonese. Produce al suo principale imitatore e discepolo, Jacky Pang, un seguito autorizzato (ma contenutisticamente indipendente) come Rose Rose I Love You e poi chiude il ciclo in prima persona firmando il complesso e divertente Black Rose II. In coincidenza con il bisogno di nascondere il proprio operato in pubblico e con la suddivisione dei compiti con i due colleghi / amici Lau inventa uno pseudonimo che tornerà spesso ad usare anche in periodi più tranquilli, Kay On, dietro al quale maschera la sua attività di sceneggiatore.
Staccatosi di dosso un'etichetta limitativa e uscito con autorità dal limbo dei filoni (comicamente parodiati) in cui in ogni caso eccelle, Lau approda alla fase più interessante della sua carriera, giocando con i generi e con una libertà formale ed espressiva pressoché totale. Saviour of the Soul ne è manifesto: un documento post-moderno che riprende in maniera solo apparentemente scanzonata e grossolana Black Rose IIle tentazioni dell'azione più ardita. Così come The Eagle Shooting Heroes, wuxia comico che parte dallo stesso testo di Louis Cha servito a Wong Kar-wai per Ashes of Time, di cui recupera - e amplifica - gran parte del cast: i vaghi sapori medio-orientali, i richiami al cinema d'avventura di Douglas Fairbanks, la schiettezza di gag e personaggi, i numeri musicali e i dialoghi sopraffini ne fanno un capolavoro, colto e popolare, di ironia. Anche negli incontri con il prediletto Chiau si nota una pressante amarezza di fondo3. E' il caso del mastodontico A Chinese Odyssey, diviso in due pellicole, una rilettura folle del classico Il viaggio in Occidente, che spinge in chiave fantastico-virtuale, proponendo paradossi temporali e variabili incontrollate4. O dell'ennesimo horror comico, Out of the Dark (dove Chiau è un ghostbuster che spaventa i fantasmi cui dà la caccia), le cui aperture consapevolmente tragiche denotano un incupimento dei toni e una maggiore propensione allo humour macabro. Poco prima dell'handover Lau, come molti colleghi della sua generazione - delusi anche dalle scarse attenzioni di un pubblico poco propenso a ridere -, pare defilarsi, forse in attesa della giusta occasione per riproporre un umorismo sorpassato dalla preoccupazione collettiva per il sempre più vicino ritorno di Hong Kong alla madrepatria Cina. Dopo qualche anno di riposo torna con due film in pochi mesi - il gradevole Second Time Around e il nostalgico Chinese Odyssey 20025, che ricorda molto per spirito goliardico il precedente The Eagle Shooting Heroes - e si ripropone - anche come sceneggiatore, per il solito Corey Yuen nello stereotipato action So Close - nuovamente come regista di riferimento. Per fortuna: perdere definitivamente un talento di questo calibro sarebbe stata una ferita difficilmente sanabile.

Note:
1. Wong è anche sceneggiatore di molti dei primi horror del collega d'affari.
2. «L'immaginazione di Lau è spesso sgangherata, ma mai mediocre. E alla fine degli anni Novanta appare emblematica del lato piùChinese Odyssey 2002 creativo e resistente del cinema hongkonghese nell'epoca post-moderna, disegnando un'opera spesso entusiasmante il cui gusto ludico, la decostruzione dei codici e una malinconia sotterranea non sono in contraddizione.» Alberto Pezzotta - Tutto il cinema di Hong Kong (Baldini & Castoldi, 1999 - pagg. 321-322).
3. Amarezza che sfocia, abilmente incanalata, in uno dei tanti apici realizzativi del registi, il mélo-noir Love and the City, con Leon Lai e Wu Chien-lien, una delle rare escursioni al di fuori della commedia di un regista sempre più preparato e poliedrico.
4. Un progetto ambizioso ma travagliato, uscito dapprima in due parti e, per la delusione del regista, rivelatosi un mezzo flop; poi rimontato dallo stesso Lau tagliando parecchi metri di pellicola e arrivando ad un'unica soluzione, senza però incontrare maggiore successo.
5. Con Chinese Odyssey 2002 Lau ricomincia a flirtare con il box office, piazzando il terzo incasso della stagione dopo una lotta serrata con Marry a Rich Man e Fat Choi Spirit: nella sarabanda nostalgica di personaggi transgender e spadaccini innamorati si rivede con grande piacere il nome del regista Tony Au, qui direttore artistico.